Mettere in una sola frase Susan Sontag, la fotografia e i selfie è un azzardo, lo so. Perdoantemi.
Scriveva Susan Sontag “To photograph people is to violate them, by seeing them as they never see themselves, by having knowledge of them that they can never have; it turns people into objects that can be symbolically possessed. Just as a camera is a sublimation of the gun, to photograph someone is a subliminal murder – a soft murder, appropriate to a sad, frightened time.”
(“Fotografare le persone significa violarle, vedendole come non si vedono mai, avendo di loro una conoscenza che non potranno mai avere; trasforma le persone in oggetti che possono essere simbolicamente posseduti. Proprio come una macchina fotografica è una sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio subliminale – un omicidio appropriato a un tempo triste e spaventato”.)
Susan Sontag, fotografia e selfie
In tempi di selfie – stick e culto dell’io, o meglio dell’I-qualcosa, non so se le parole di Susan Sontag sulla fotografia possano essere condivise da molti. In ogni caso rimangono, almeno per me, vere.
Io ho sempre trovato una certa difficoltà a fare fotografie, a concentrarmi sull’obbiettivo della macchina fotografica o sullo schermo del cellulare, mentre tutto intorno a me ho dei panorami mozzafiato o persone eccezionali. Ho sempre l’impressione di perdermi qualcosa del “momento magico” per scattare istantanee che poi magari nemmeno guarderò.
Non parliamo poi di fotografare le persone, trovo questa cosa quasi intollerabile. Eppure un blog di viaggio non potrebbe esistere senza le fotografie e, bisogna riconoscerlo, un po’ tutto il nostro vivere quotidiano è incentrato sulla vista e sull’immagine, da Instagram a Snapchat, dalle foto di WhatsApp ai video di YouTube e, ci mancherebbe, agli youtuber.
Susan Sontag e gli autoritratti del XXI secolo
Qualcuno paragona i selfie agli autoritratti e conclude che in qualche modo il nostro ego ha sempre voluto esprimere se stesso attraverso l’immagine e l’immaginarsi. Insomma, ha sempre voluto prendersi la scena e mostrarsi. In effetti può esserci una parte di realtà in questo ragionamento ma ammetto che per gran parte non lo condivido e, tra gli “storici” ritratti e i selfie, mi sembrano molto di più le differenze che le somiglianze (se non altro perché il ritratto passava in genere attraverso la mediazione di un’altra persona e anche l’autoritratto era un lavoro fatto con pazienza e perizia).
Un recente ed interessante articolo della rivista “The Believer“, citava proprio la Sontag e trattava il tema della fotografia e delle distorsioni che essa può provocare.
Key Afar, Etiopia
L’autrice, Blyss Broyard, è una scrittrice di successo che, insieme al marito, ha deciso di prendere un anno sabbatico e andare con i due figli in giro per il mondo. Arrivati in Etiopia, in particolare al colorito mercato di Key Afar, non può fare a meno di notare non solo il mercato vero e proprio, ma anche tutto il mercanteggiare attorno alle fotografie che i turisti fanno ai variopinti indigeni locali, vestiti di tutto punto con colori sgargianti, con la pelle colorata di bianco o con i famosi dischi d’argilla tra le labbra.
Ogni gruppo etnico ha dei prezzi e a seconda della fotografia e dei turisti i vari gruppi indigeni possono chiedere cifre più o meno altre per mettersi in posa. L’autrice si chiede quanto questo sia giusto ma allo stesso tempo si domanda se la posizione che la sua famiglia ha assunto, cioè quella di non partecipare al safari fotografico e non pagare nessuno degli indigeni, non sia comunque una posizione criticabile e snob.
Inoltre, si chiede Blyss, una volta tornati dal viaggio quali saranno le fotografie capaci di raccontare quello che hanno visto? quanto vera, quanto falsa o banale sarà quella foto in cui tutti e 4 sorridono immortalati davanti ad un monumento o ad una sconfinata savana?
Safari
Il suo ragionamento è complesso e non voglio semplificarlo troppo perché banalizzerei la questione. La riflessione mi ha però colpito perché anche io rifiuto in genere di partecipare ai safari fotografici umani, convinto che siano degradanti.
Cosa ne penseranno però di me coloro che sopravvivono grazie a questo teatro di posa all’aria aperta? a questo show ad uso e consumo dei turisti? forse che sono uno stronzo europeo e che non si capisce per quale motivo vada in un posto dimenticato da Dio se non voglio fare delle foto.
A cosa serve la fotografia?
Il dibattito è aperto perché la fotografia, in pellicola o digitale, non è solo furto dell’anima o possesso della persona, ma potrebbe anche salvare delle vite o rappresentare una forma di pubblicità ad altissimo impatto. Spesso eventi terribili senza la potenza dell’immagine non troverebbero eco al di fuori di un piccolo cerchio di conoscenze locali.
È vero, le fotografie possono cambiare il corso della nostra storia, con la s minuscola ma anche della Storia con la S maiuscola. I riferimenti alla guerra in Siria, in Iraq, Somalia o, per andare indietro di qualche anno, a quella in Vietnam, sono solo quelli che mi saltano prima alla mente ma non certo gli unici. Insomma, trovo intollerabile fotografare morte e distruzione eppure, in alcuni casi, potrebbe essere utile.
Se la fotografia può essere utile, a cosa può esser utile il selfie (credo se lo chiederebbe anche Suasan Sontag)? mah…
Concludiamo
Non voglio fare troppo il bacchettone. I mezzi attraverso i quali si esprime la nostra vocazione artistica cambiano, così come cambiano i mezzi attraverso i quali cerchiamo di rendere eterne, o anche solo più durature nel tempo, le nostre esperienze e le nostre avventure. Da un lato il rischio diventa quello di sostituire la quantità alla qualità e poi anche d’immortalare momenti che, nella migliore delle ipotesi, non rappresentano altro che un’infinitesimale frazione della complessità del reale.
L’articolo su Susan Sontag e la fotografia è finito, ma se volete vi propongo qualche altro suggerimento.
Che ne dite di un po’ di storia? Qui parlo di Ibn Battuta.
In questo altro post racconto perché viaggiare in Caucaso.
Io credo che il selfie si la morte dell’anima!