Nella mia “carriera” gli episodi di viaggio imbarazzanti sono stati molti. Sbagli autobus, sbagli treno, paghi troppo o non paghi per nulla, le strade sono più lunghe o più dissestate di quanto avevi previsto (o magari sono chiuse).
Insomma la mappa non è quasi mai il territorio, nemmeno se si tratta di Google Maps. Poi ci sono le persone, eccezionali e simpatiche ma anche, raramente per fortuna, ammiccanti, inquietanti, pericolose o addirittura violente.
In un certo senso poi il viaggio ha il suo fulcro proprio nell’idea di mettersi in imbarazzo, calandosi in situazioni diverse da quelle ordinarie, con i rischi più e meno grandi che questo comporta.
Era meglio se stavo a casa?
In ogni caso nessuno di questi episodi mi ha portato a dire “era meglio se stavo a casa” (che tra l’altro è il titolo di una spassosa raccolta di viaggi abbastanza sfortunati edita da FBE di cui parlo in questo post). Anzi, forse sono stati gli episodi imbarazzanti a rendere, col senno di poi, più interessante il viaggio.
È curioso notare come, con il passare degli anni, anche gli eventi più “pesanti” tendono ad assumere colorazioni meno fosche e diventino aneddoti da raccontare tra un sorriso e l’altro.
L’elenco che trovate non è ordinato ma fedele, per quanto possibile, al reale svolgersi dei fatti (comunque lo sapete che i ricordi possono fare brutti scherzi vero?).
L’idea è che forse potrete trarre qualche piccolo spunto da questo elenco ed evitare di trovarvi in situazioni spiacevoli o magari potete semplicemente farci due risate sopra.
Episodi di viaggio imbarazzanti. Settembre 2006, Alto Adige
Il viaggio di quell’anno era stato rimandato, posticipato, e poi praticamente annullato per varie ragioni (università, soldi, indecisione sulla meta, mischiate il tutto). La soluzione di ripiego era la terra dei miei parenti, l’Alto Adige, con una puntatina a Innsbruck, nel Tirolo austriaco, e una giornata di rafting (le due cose, in un modo che non avevo previsto, finirono poi per influenzarsi).
Io e Marco arrivammo nel luogo d’incontro un giovedì mattina, con un freddo polare, specie per noi abituati all’afa padana. Poco prima della partenza la nostra guida ebbe il buon gusto d’informarci, nel suo italiano che sapeva giusto un poco di tedesco, che rafting non si poteva fare perché nei fiumi “z’è poca acccqua”.
Canyoning
In cambio però avremmo potuto sperimentare l’ebbrezza del canyoning. Canyoning? Ammetto la, di allora, mia ignoranza in materia e aggiungo che il dover indossare una muta prima della partenza non prometteva bene.
A cimentarsi in tutto questo c’erano però anche un ragazzo tedesco di 16 anni e sua madre, una signora sui 50 molto sorridente. Giudicai che, tutto sommato, doveva trattarsi di qualcosa di fattibile anche per qualcuno che non aveva una grossa esperienza in materia.
Indossammo, con una certa goffaggine, delle mute da sub e poi partimmo con un pulmino tutto scalcagnato, per dirigerci a 1600 metri di quota, vicino alla sorgente di un fiumiciattolo che si chiamava Rio Sarre.
Il paesaggio era incantevole, il sole sbucato fuori dai monti aveva fatto alzare la temperatura, i prati verdi scivolavano veloci accanto al nostro furgoncino che gracchiava e sbuffava mentre s’arrampicava sulla cima di un monte alpino da cartolina. Ero decisamente allegro, poi, nel bel mezzo di un ponte spaventosamente alto, il pulmino si fermò. Bum, fermi, corsa finita, siamo arrivati.
Adesso si salta
Scesi dal pulmino e osservai atterrito la signora teutonica e suo figlio infilarsi con difficoltà in un’imbracatura da rocciatore. Qualcosa non tornava, forse era ora di chiedere delucidazioni sul canyoning.
– Atesso zendiamo, fai in fretta con la tutta che tocca a te par primo.
La guida si era rivolta a me e io guardai Marco che si limitò a dirmi – se avessi saputo che avremmo dovuto fare quello che stai per fare giuro che non sarei mai venuto.
Dovevamo calarci da un ponte di una novantina di metri infilati dentro una tuta da sub, che ci faceva sembrare salmoni insaccati, attaccati ad una cordicella che non mi era mai sembrata così piccola e fragile.
– Fieni – m’intimò nel suo italiano leggermente accentato la guida – scafalca parapetto e tieniti, qfando arrivi giù sganci il moschettone e io tiro zu la corrrda.
Mi sporsi e guardai di sotto, era alto, molto alto. Scavalcai il parapetto, la guida mi strizzò l’occhio e disse – molla.
Ecco, so che è stupido, non ho mai sentito di nessuno che è morto facendo canyoning, però, nel momento in cui stavo per mollare e lasciarmi andare nel vuoto, mi assalirono diversi dubbi sulla bontà della mia scelta per passare un weekend diverso.
Il primo pensiero fu “allora è questo che prova una persona che decide di suicidarsi”, il secondo era un miscuglio di almeno un centinaio di motivi per cui non avrei dovuto fare quello che stavo facendo.
Mollai la presa.
I primi dieci metri passarono velocemente e poi la mia guida prese un ritmo più lento e io mi godetti la discesa. Arrivato in fondo, poggiai i miei piedi sul letto del ruscello e sganciai il moschettone. Andata in maniera tutto sommato indolore.
Sguazzare
In breve tempo le mie preoccupazioni scomparvero. Eravamo si ridicoli e molto goffi eppure ci calavamo con la corda da cascate, con l’acqua gelida che ci sferzava la faccia, scivolavamo in calanchi e piccoli canyon e sguazzavamo in pozze d’acqua gelida come se niente fosse, mentre intorno a noi non c’era anima viva.
Tutto però, prima o poi, deve avere una fine e così anche la nostra giornata di canyoning, dopo due ore di tuffi e discese varie, giunse al termine. Rimaneva solo l’ultimo atto.
Un bel salto nel vuoto di dieci metri in una pozza d’acqua grande più o meno come il tetto della vostra auto. Ovviamente la guida mi chiamò per primo e mi disse esattamente queste parole – Non fare un zalto corrto parché prendi rocce, non farlo trroppo lungo parché z’è una cazcata, vedi di zentrare la pozza e fa tutto pene.
Non so perché ma la sua aria tranquilla e menefreghista non mi convinceva affatto, così arrivai sulla roccia-trampolino e guardai di sotto.
Buttarsi dal terzo piano
Era un cazzo di salto. Forse dal basso il terzo piano del vostro condominio non vi sembra il K2 ma provate a stare in piedi sulla ringhiera del balcone pronti per buttarvi e poi mi direte. Di nuovo mi chiesi perché avrei dovuto fare il salto.
– Siamo sicuri?
– Ciaaarto – rispose la guida e poi subdolamente aggiunse – ze non te la zenti ti calo con corda.
Ma vaffanculo e facciamolo sto salto, via, swoosh e mi libro nell’aria. Qualcosa non va, perdo coordinazione. Faccio in tempo solo a pensare merda e poi boom atterro a volo d’angelo sulla superficie dell’acqua.
Vado sotto e poi torno subito su. La guida mi chiede – tutto ok? – io faccio segno di si con il pollice e allora è il turno di Marco che, fortunatamente per lui, si tuffa a candela.
Che impatto!
Signori e signore, vi posso assicurare che impattare di faccia sull’acqua dopo un volo di dieci metri è come essere presi sotto da un camion, con l’unica differenza che il camion ha un autista, c’è qualcuno con cui prendersela se si sopravvive, mentre con l’acqua…bhè, con l’acqua sei tu l’unico coglione, io per la precisione.
Magari mi sono fatto un trauma cranico o del sangue che schiacciava il nervo ottico o Dio solo sa cosa. Sarei diventato cieco, avrei dovuto portare una benda sull’occhio come quei pirati da quattro soldi della televisione e la cosa che più mi dava fastidio era che tutto questo era solo colpa mia, non c’entravano ubriachi, clandestini senza permesso di soggiorno, non c’entrava il destino porco bastardo e non c’entrava nessuna delusione d’amore o lutto familiare tanto straziante che per qualche motivo illogico, ma comprensibile, ti fa commettere qualche sciocchezza. Invece ero solo io e la mia stupidità.
Lieto fine
Come andò a finire? Intanto il fatto che abbia scritto questo racconto significa che, bene o male, la vista non l’ho persa (ad essere sincero ho avuto alcuni problemi nel distinguere la destra dalla sinistra, per un certo periodo di tempo, ma adesso sembra passato) e poi, il giorno successivo, ad Innsbruck, dopo la quinta birra media e il terzo bicchierino di vodka, il dolore scomparì e io non fui mai così felice di essere ubriaco.
Episodi di viaggio imbarazzanti. Settembre 2005, Austria
Il destino volle che per velocizzare il ritorno dalla sempre ridente Germania (dopo un viaggio in auto che ci aveva portato fino a Tallin e poi in traghetto a Lubecca), i miei compagni di viaggio mi convinsero ad attraversare i 30 o poco più chilometri di Tirolo austriaco che separano la Germania dall’Italia, senza pagare la vignetta.
Beccati!
Lo so, pessima mossa. Lo capimmo nel momento in cui una BMW familiare accese un lampeggiante e ci fece segno di seguirla fuori dall’autostrada. Bestemmiai e ripassai mentalmente le infrazioni che potevo aver commesso.
Non avevo bevuto. Non avevamo sostanze stupefacenti, credo. Avevamo superato i limiti di 30km orari buoni. Non avevamo il bollino delle autostrade austriache. Merda.
Uscimmo dall’autostrada seguendo la macchina della polizia.
– Patente e libretto.
Patente e libretto.
– Andava a 160 all’ora, il limite è 130 se n’è accorto? – domanda retorica.
– Mi dispiace agente, ma abbiamo incontrato un incidente a Monaco e siamo in ritardo – futili giustificazioni, guarda negli occhi il poliziotto e stai tranquillo.
Contestualizzare
Ricordati che quello che ti dice lui è passato attraverso il suo matrimonio che sta andando in pezzi, il dolore alla schiena che lo tormenta da una settimana, il figlio che lo detesta, il fatto che deve ancora finire di pagare il mutuo di una casa che lui non ha mai voluto e dal fatto che quella prostituta che ha visto l’altra sera lo eccita non poco.
Dei due agenti alla Starsky e Hutch, senza uniforme e con la pistola in bell’evidenza sulla cintura, è Starsky a rivolgersi a me con tono aggressivo.
– Vedo che non avete nemmeno la vignetta.
Non c’è niente da dire, spera solo che ti perdoni.
– Sono 130 euro per la vignetta e 36 euro per la velocità.
Cosa? – hai sentito Marco? che cosa ne dici se ci fossimo fermati a prendere una vignetta da sette euro?
Luca e Ale hanno finito i soldi
I miei due compagni di viaggio, Luca e Ale, prima chiesero se non fosse possibile spedire la multa a casa e poi, dopo aver ricevuto risposta negativa, rovesciarono platealmente tutto il contenuto dei loro portafogli sul sedile del passeggero. Contando anche le monete riuscivano a racimolare circa 30 euro.
– È tutto quello che abbiamo – in coro.
Avevamo finito i soldi, vero, ma era proprio il caso di prendere per il culo i poliziotti svuotandosi le tasche e dicendo che non avevamo carte di credito e non avevamo possibilità di prelevare soldi?
Notte in gattabuia
Eravamo fermamente decisi a non pagare sul posto, ma non sapevamo fino a che punto saremmo stati in grado di sopportare le conseguenze della nostra decisione. Eravamo pronti a passare una notte in cella?
Nelle prigioni austriache si, eravamo pronti.
Eravamo pronti a farci sequestrare la macchina? No, non ero pronto.
Il problema più grosso era che Starsky e Hutch consideravano solo me come responsabile, per cui scoprii che l’eventuale serata in cella l’avrei dovuta passare tutta solo soletto.
A quel punto la mia iniziale tranquillità era scomparsa.
Orologio
Eravamo arrivati ad un punto morto, io non volevo scendere dalla macchina e i due duri non ne volevano sapere di chiudere un occhio. La situazione si sbloccò o per meglio dire degenerò quando, lesto come un fulmine, l’aggressivo Starsky provò a slacciarmi il cinturino dell’orologio, urlandomi in faccia che se non potevo pagare in contanti dovevo lasciargli l’orologio.
Ritirai preoccupato il braccio dentro la macchina. Motta la prese, come dire…sul personale – non è il modo di comportarsi! Ma dove siamo finiti? non è il modo di comportarsi! questo non è giusto, non è giusto! – e urlando “non è giusto” scese dalla macchina e cominciò ad agitare le braccia verso il cielo. Marco non proferiva parola.
Le cose si stavano mettendo male e vedevo il mio futuro immediato in maniera non esattamente positiva. I due personaggi che impersonavano i poliziotti si erano ormai calati troppo nella parte.
– Ragazzi non pensate di esagerare? – dissi scuotendo la testa.
Starsky infilò la testa dentro la macchina – puoi lasciarmi anche il navigatore.
I rinforzi
Eravamo fermi da venti minuti, alla fine della rampa con la quale si usciva dall’autostrada e stavamo resistendo alla rapina di due buzzurri che si fingevano poliziotti, quando un’altra macchina della polizia, a sirene spiegate, comparve nel nostro campo visivo. Era appena uscita dall’autostrada e procedeva ad almeno 100 all’ora quando decise d’inchiodare piazzandosi proprio tra la mia c3 e l’altra macchina della polizia.
La puzza degli pneumatici bruciati per via dell’inchiodata penetrò all’interno del nostro abitacolo e mentre stavo dicendo in italiano – che cazzo di sceneggiata è questa? – dalla seconda macchina scesero altri due poliziotti in borghese che parlarono con i due che ci avevano fermato e poi mi fecero capire che desideravano parlami a quattr’occhi.
Raccolsi tutto il coraggio che mi rimaneva, aprii la portiera deciso, mi sistemai il giacchetto di pelle e mi avvicinai ai due nuovi arrivati.
– Se non avete i soldi dovete lasciarci qualcosa. Noi vi lasciamo una ricevuta. Quando avete i soldi venite con la ricevuta e vi ridiamo quello che ci avete lasciato.
Questione di giubbotti di pelle
Il poliziotto parlava in modo tranquillo, facendo lunghe pause e tenendo sempre la mano sinistra appoggiata sulla pistola. Non so perché, ma a 15km da Innsbruck c’erano tre persone vestite con giubbotti di pelle che discutevano animatamente sulla possibilità di farmi passare la notte dietro muri di cemento spessi un buon mezzo metro e poi c’ero io, sempre con un giubbotto di pelle, palesemente dalla parte del torto, che tentavo diconvincere i tre di cui sopra a…a cosa? Non era così che pensavo sarebbe finita il mio viaggio.
Come forse avrete già intuito, alla faccia del “don’t touch my Breil”, sacrificai il mio orologio, per il bene comune.
Episodi di viaggio imbarazzanti. Belgrado, settembre 2007
Il viaggio tra le ex repubbliche jugoslave ci aveva già regalato sorprese ed incontri piacevoli, specie a Sarajevo.
Belgrado, cuore culturale e politico della Serbia, l’unica vera metropoli dei Balcani, la più “allegra” delle capitali nate dall’implosione della ex Jugoslavia, sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Ci aspettavamo molto, sia come vita notturna che come quantità di luoghi da visitare. Buon cibo, alcool abbondante, qualche bel sito turistico e un’atmosfera da festa gitana (dove, come dice Robert Downey Jr., ricordate che non dovete ballare mai).
Let’s dance
La vita notturna belgradese era in effetti scoppiettante, o almeno questo si percepiva. Le ragazze erano bellissime, la città aveva una sua atmosfera calda, un po’ sudata, poco turistica e leggermente rude ma anche vera, forse anche troppo vera.
Sembrava impossibile riuscire ad entrare nei locali notturni, mischiarsi a quel guazzabuglio di casino e musica che, specie nel weekend, attraversava la città come se non ci fosse un domani. La vodka scorreva a fiumi e le ragazze si scatenavano in pista seguendo ritmi turbo-folk (il turbo folk è un genere nato in Serbia, ma popolare in tutti i Balcani, che mischia pop, folk e elettronica anni ’80. Secondo una visione che mi sento di sposare, il turbo folk è stato alternativamente definito come “la colonna sonora delle guerre in Jugoslavia”, “aggressivo, sadistico e dall’iconografia erotico/pornografica” oppure semplicemente “porno-nazionalismo”. Qui potete gustarvi un esempio di musica) difficili da digerire senza 3-4 superalcolici sullo stomaco, ma noi non riuscivamo a prendere parte a tutto questo.
Venivamo sistematicamente rimbalzati all’entrata di ogni locale. I buttafuori, persone che sembrava non fossero esattamente degli stinchi di santo, non ci facevano mai entrare, dicendo che la festa era privata e i turisti non potevano accedervi. Se a questo aggiungete lo spropositato aumento che il tassista ci propinò per portarci davanti a uno di quei locali che poi non ci fece entrare, si può certo dire che il primo impatto con la Belgrado notturna non fu dei migliori.
Di bene in peggio
Purtroppo le cose non andarono migliorando successivamente. L’amico che era con me in quel viaggio aveva infatti ben pensato di indossare una maglia nera con la scritta USA bella evidente sul davanti.
All’epoca erano passati 9 anni, ma il ministero degli esteri Serbo mezzo distrutto a causa dei bombardamenti americani era ancora lì, a ricordare a tutti chi aveva fatto cosa. Era ovvio che vedere un ragazzo giovane e sbruffoncello che si aggirava per le vie della capitale sbattendo a destra e a manca la scritta USA, non aiutasse ad avere un approccio molto aperto nei nostri confronti.
Se dovete proprio trarre una conclusione: occhio alle scritte sulle vostre magliette!
Laos, novembre 2008
Il viaggio del 2008 fu il mio primo giro al di fuori dei confini europei. La meta, classicissima, la Thailandia, a cui decidemmo di aggiungere una puntatina in un Laos, allora ancora abbastanza “ruvido”.
L’ingresso in Laos fu attraverso il traghetto che collega(va?) Chiang Kong a Ban Houayxai. Oggi c’è anche un ponte con due posti di frontiera puliti e moderni, mentre allora tutto l’ambiente sembrava uscito da una via di mezzo tra un film sul far west e un “cuore di tenebra” ambientato nel triangolo d’oro.
Per muoverci verso Luang Prabang le “strade” erano due: una estenuante due giorni su una slow boat lungo il Mekong o una adrenalinica corsa di 6 ore su una speed boat. Le speed boat possono essere, almeno così diceva la guida, pericolose.
Qui tutto è pericoloso
Quando chiedemmo lumi al donnone che ci doveva vendere i biglietti, lei allargò le braccia e scosse la testa dicendo “ragazzi, siamo in Laos, tutto è pericoloso!”.
All’inizio non sembrava una brutta scelta la speed boat. A parte la sosta a Pak Beng, che allora era veramente un posto dimenticato da Dio e dal governo laotiano a cui si accedeva quasi solo via barca, il viaggio fu quasi piacevole.
Crampi
Dopo 4 ore rannicchiato però cominciai a sentire i crampi alle gambe che si diffusero velocemente su verso la coscia e credetemi se vi dico che non sapevo davvero come resistere. Mi girai per guardare il nostro capitano ma lui sembrava attento al fiume e così non me la sentii di fermare la barca, convinto che in poco tempo saremmo arrivati a destinazione.
In effetti a destinazione ci arrivammo ma dopo 40 minuti in cui cominciai a mordere la mia agendina Moleskine per resistere al dolore. Ovviamente il barcaiolo non ci portò a Lunag Prabang ma 4-5 km prima, in modo che qualche ragazzo con il tuk-tuk potesse tirar su due soldi trasportando noi fino in centro. Nulla di nuovo sotto il sole.
Morale: prendetevi una posizione comoda, molto comoda, sulle speed boat laotiane.
Episodi di viaggio imbarazzanti. Thailandia – Singapore, dicembre 2011
La Thailandia è un paese assai più complesso di quello che lo slogan “terra dei sorrisi” vorrebbe farvi pensare. Ragion per cui di episodi imbarazzanti ne potrei citare molti. In ogni caso limitiamoci ad alcuni aspetti.
La giunta militare al governo, i frequenti colpi di stato e il legame a tre fra religione buddista, monarchia e politica sono solo alcuni piccoli (o grandi) indicatori del guazzabuglio nazional-conservatore che esiste dietro la facciata di Soi Cowboy, Pattaya e Pat Pong (nota a margine…ci sono state le elezioni recentemente. Leggete qui)
E dire che c’è chi crede che gli angoli più loschi della Thailandia siano quelli in cui si trovano prostituzione e gogo bar. Comunque.
BKK to S’pore. Pronti?
Sono a Bangkok e devo arrivare a Singapore. Prendo il treno fino ad Hat Yai e da lì un autobus che dovrebbe portarmi diretto fino alla città stato, attraversando di notte tutta la Malesia.
Il prezzo viene contrattato, 950 baht (44 baht erano un euro, sull’autobus cera ovviamente anche chi ha pagato 750 baht). Il tragitto è un dramma da teatro greco in salsa asiatica condito da 16 stop con continue consegne di materiale imprecisato ad anonimi personaggi lungo la strada, 16 ore di viaggio per 890 km, valigie buttate sulla strada a clienti non troppo veloci a scendere e una rottura del cambio che ci costringe ad una sosta in un garage malese, a 35km dall’autostrada, per circa 2 ore.
Uno dei due autisti in particolare aveva un’aria da brutto ceffo piuttosto marcata e più volte, durante il tragitto, si è intrattenuto con una ragazza thailandese affidandogli dei pacchetti che lei metteva nella valigia con una certa aria sospetta (senza contare che poi, casualmente, la valigia della ragazza sarà l’unica a rimanere sul pulmann, nascosta nella cappelliera dietro a delle coperte, mentre tutti noi dobbiamo scaricare le valigie a farle controllare dalla dogana di Singapore. Vai a capire).
Morale: occhio a viaggiare con KKKL e giusto per curiosità andate a questo link o fare qualche ricerca online.
Il passar del tempo
Un altro aspetto interessante delle storie più o meno imbarazzanti che vi hanno come protagonisti è che più si raccontano meno imbarazzanti diventano. Concordate?
In parte il fenomeno è legato a quello che accennavo nel post precedente e cioè che il passare del tempo dona leggerezza a tutti gli eventi, anche a quelli più traumatici. Questo non è però l’unico fattore da prendere in considerazione.
L’altro è, a mio parere, il fatto che portare alla luce del sole una qualsiasi esperienza, e condividerla, ne alleggerisce il “peso” e in qualche occasione può dare addirittura l’impressione (magari anche a torto) che voi siate così zen, così superiori, così nirvanamente in grado di accettare le cose che non si possono cambiare, da essere in grado di mettere in piazza anche le scene più imbarazzanti della vostra vita.
A presto!
Il post sugli episodi di viaggio imbarazzanti è davvero finito.
Già che ci siamo, potreste essere interessati a fare un’assicurazione di viaggio?
O ancora vi racconto come pianificare un viaggio dopo un’epidemia e, molto importante, come viaggiare spendendo poco.
Oppure che siete interessati a sapere quello che ho imparato nel sud est asiatico?