Turismo e politica: il turista deve essere consapevole o una bestiaccia a-politica?

Turismo consapevole. Turismo responsabile. Termini noiosi, borghesi, adatti a persone che si preoccupano troppo e agiscono poco, molto poco. In genere si tratta di quelle stesse persone che comprano acqua in bottiglia realizzata con il 50% di plastica riciclata perché così “aiutano l’ambiente”.

Eppure in questa epoca di iper informazione e iper consapevolezza ci dovremo misurare sempre di più con il turismo responsabile e con quello consapevole (almeno una volta che il turismo sarà realmente ripreso).

Avrete notato che uso i termini in maniera differente perché per me uno è legato all’ambiente (il turismo responsabile e ho anche un post sui problemi ambientali causati del turismo e in particolare dagli aerei) e uno agli aspetti sociali, politici e culturali del turismo (turismo consapevole).

Dalla teoria alla pratica

Soprattutto quando parlo di aspetti politici, sociali e culturali, le mie parole non nascono dalla spocchia tipica del turista benestante occidentale. Non si tratta di elucubrazioni filosofiche ma di realtà toccate con mano.

Per quelli che come me hanno messo piede a Bangkok e in Thailandia più di una volta negli ultimi 8-10 anni, i contorcimenti della politica thai, ad esempio, hanno assunto una consistenza molto reale.

Chiang Mai, tempio

Ammetto che, in genere, il quadro politico di un paese in cui si passa come turisti non acquisisce una dimensione concreta. Attraversi la frontiera e di solito la polizia non la incroci più. Eventuali abusi, limitazioni delle libertà civili, detenzioni illegali, corruzione diffusa, elezioni farsa (insomma il solito lungo elenco di violazioni dei diritti compiute da un sistema autoritario o dittatoriale), disastri sociali ed ecologici, rimangono sullo sfondo, presenti ma difficilmente percepibili nelle loro reali dimensioni.

C’è un motivo preciso? Forse si tratta della natura dell’ “essere” turista. Badate bene, non voglio fare un elogio dell’a-politica, magari arrivando al punto di sfiorare il concetto di complicità.

Ok il turismo consapevole ma ve lo ricordate “fuga di mezzanotte”?

Il mio pensiero è, semplicemente, che da turisti non si ha il tempo, il modo e magari nemmeno le conoscenze necessarie, per interessarsi di questioni politiche o di libertà civili. Turismo e politica semplicemente non sono fratelli, oppure lo sono ma non vanno molto d’accordo.

Paesaggi da cartolina, autobus, attese, hotel, bar, ristoranti, un goccio di troppo, qualche museo e monumento, questo è il menu. Prigioni malsane, aule di tribunale, stazioni di polizia maleodoranti, elettordi attaccati ai capoezzoli e riunioni clandestine non fanno parte del pacchetto del viaggiatore tipo. Forse di un giornalista ma nemmeno tutti i tipi di giornalista.

La Thilandia non è solo la terra dei sorrisi, del riso e di un turismo che copre quasi tutti i settori, da quello medico a quello sessuale, è anche un paese estremamente difficile da decifrare, specie per noi occidentali. Lingua, alfabeto e tradizioni sono piuttosto lontane dal nostro modo di vedere e fare le cose e il buddismo plasma in maniera assai forte le vite dei cittadini.
La Thilandia non è solo la terra dei sorrisi, del riso e di un turismo che copre quasi tutti i settori, da quello medico a quello sessuale, è anche un paese estremamente difficile da decifrare, specie per noi occidentali. Lingua, alfabeto e tradizioni sono piuttosto lontane dal nostro modo di vedere e fare le cose e il buddismo plasma in maniera assai forte le vite dei cittadini.

Il turismo consapevole. Tesoro, posso entrare in politica?

A volte però la politica bussa alla tua porta (o meglio la sfonda) e allora fai fatica a non farci i conti.

La prima volta in cui mi capitò fu nel 2008, nel mio primo viaggio intercontinentale. Lo scenario che, da placido fondale un po’ annebbiato si era invece preso il centro del palcoscenico, era una lunga e un po’ noiosa lotta fra due partiti politici thailandesi.

Si trattava del movimento delle “camicie rosse” (prima Thai Rak Thai party, poi Pheu Thai party), vicino all’esiliato ex premier Thaksin Shinawatra,  e il movimento delle “camicie gialle” (People Alliance for Democracy prima adesso Democratic party), un raggruppamento politico eterogeneo che si caratterizzava principalmente proprio per il suo essere contro l’ex premier Thaksin Shinawatra (se vi ricorda qualcosa dei nostri contorcimenti politici non siete gli unici).

Chi è Thaksin Shinawatra?

Al centro di tuttociò, amato oppure odiato, c’era lui, Thaksin. Il multimiliardario ex-premier che dal 2008 si trova in esilio a Dubai. Per fare una lunga storia breve, i “rossi” erano espressione di quei ceti meno abbienti (contadini, sottoproletariato urbano) che erano maggioranza soprattutto nel nord e nel nord-est (ecco che torna il famoso Isan…vi ricordate? ne abbiamo parlato con un bell’articolo dsu Ubon Ratchatani e con un articolo sui templi Khmer di Phanom Rung e Muang Tam).

Se turismo consapevole e politica hanno una dimensione concreta, per me questo è dovuto al signore che vedete in foto, Thaksin, ex premier thailandese.
Se turismo consapevole e politica hanno una dimensione concreta, per me questo è dovuto al signore che vedete in foto, Thaksin, ex premier thailandese.

I “gialli” erano uno strano mix di forze conservatrici (monarchia, militari, ceti della media e alta borghesia, ma anche uomini e donne autenticamente liberali (pochi in verità, perché la Thailandia, nonostante quello che possiate pensare guardando le strade male illuminate di Patpong o Pattaya, rimane uno stato fortemente conservatore)), che vedevano però in Shinawatra un populista corrotto che avrebbe allontanato il paese dalla retta via.

Turismo consapevole e profezie autoavveranti

Il succo è, purtroppo per i “gialli”, che il loro approccio politico si è trasformato in un classico caso di profezie auto-avveranti. Ti preoccupi così tanto che qualcosa non accada da far si che si verifichi.

Cerco di spiegarvi e di spiegarmi. La scena si apre nel 2008. Io e Lucio siamo in Laos, in una Vientiane ancora non investita dall’ondata di sviluppo del triennio 2011-2014. Il lungofiume è ancora costituito, per lo più, da palafitte in legno dove ci siede su tappeti e si mangia il pesce appena pescato.

Tra una grigliata e l’altra apprendiamo che l’aeroporto di Bangkok è stato occupato da un gruppo di dimostranti delle “camicie gialle”. L’obiettivo dichiarato è quello di costringere il premier, dei “rossi” e vicino a Shinawatra, a dimettersi ed andare a nuove elezioni. Forse. O forse si deve solo fare abbastanza casino perché intervenga l’esercito.

Lucio cerca news sui siti internet dei giornali italiani e leggendoli sembra davvero che la Thailandia sia sull’orlo della guerra civile. Io mi mostro più tranquillo e suggerisco di proseguire comunque verso la capitale thailandese. Questa volta turismo e politica cominciano ad avvicinarsi.

Quindi le notizie erano queste: occupazione non violenta di Bangkok da parte di simpatizzanti del Partito democratico.

Dicembre 2008. L’occupazione degli aeroporti di Bangkok

Ovviamente noi abbiamo proseguito per la nostra strada. Lucio era titubante, ma Bangkok era troppo divertente per starsene rintanati nella campagna thailandese fino alla partenza dell’aereo (che doveva essere il 2 dicembre ma la memoria potrebbe farmi scherzi).

Superammo il confine  Laos-Thailandia di buon’ora e procedemmo verso la sconosciuta Udon Thani, un paesone rumoroso con un piccolo aeroporto da cui sarebbe dovuto partire il nostro volo interno per il Don Muaeng di Bangkok.

E invece l’aeroporto di Udon Thani si rivelò desolatamente chiuso. Gli impiegati della compagnia aerea  con cui avevamo il volo, NOK se vi interessa, si scusarono e ci fecero solo compilare qualche foglio per il rimborso (che sto ancora aspettando, ma sono fiducioso).

Non è BKK ma Udon Thani, Thailandia.
Ahhh l’hotel di Udon Thani, bei ricordi, il Niagara non è che fosse poi molto diverso…

Le occupazioni facciamole bene

Insomma, a Bangkok era in atto un’occupazione che riguardava sia il Suvarnabhumi che il Don Muaeng e sembrava che il resto della Thailandia fosse in attesa di capire da che parte spirasse il vento. Tornati in centro città pensai che forse potevamo provare in treno, ma l’unico che partiva in giornata era pieno, per cui prenotammo due posti su quello notturno del giorno successivo.  Per noi questo significava rimanere, almeno per una notte, ad Udon Thani che allora, nel dicembre 2008, non sembrava essere esattamente una delle mete turistiche più gettonate del paese.

L’hotel che scegliemmo per la notte era esotico al punto giusto, simile ad una prigione vietnamita degli anni ’80, solo con qualche comfort in meno. Dovrei avere ancora le foto da qualche parte. Quando ritorno a casa le cerco e ve le posto.

Il mio amico sorride, il lucchetto alla porta è un buon segno.
Il mio amico sorride, il lucchetto alla porta è un buon segno.
L'elegante interno dell'hotel. Notare il televisore chiuso in gabbia. In questa fase eravamo ancora nella fase di turismo in - consapevole. Ma ci saremmo svegliati presto.
L’elegante interno dell’hotel. Notare il televisore chiuso in gabbia. In questa fase eravamo ancora nella fase di turismo in – consapevole. Ma ci saremmo svegliati presto.

Il giorno dopo prendemmo il treno e attraversammo tutto l’Isan nel cuore della notte.

Bangkok, novembre 2008

Arrivammo a Bangkok la mattina del 27 novembre verso le 6. L’ambasciata italiana, molto efficiente, ci aveva contattato appena rientrati in Thailandia, dicendo che Bangkok in fondo era tranquilla, “evitate assembramenti, manifestazioni, troppo alcool, droghe esotiche e dovreste cavarvela”. I bordelli, almeno, non erano off-limits. In fondo si trattava  solo di 5 giorni.

Per stare un po’ più comodi avevamo preso un piccolo appartamento con due camere in un Soi (vicolo) di Sukhumvit e, insomma, ci ambientammo bene. Non voglio adesso farla troppo lunga.

Turismo più consapevole di questo non saprei... Immagini dell'occupazione dell'aeroporto di Bangkok nel 2008, da parte dei sostenitori del partito democratico.
Turismo più consapevole di questo non saprei… Immagini dell’occupazione dell’aeroporto di Bangkok nel 2008, da parte dei sostenitori del partito democratico.

In ogni caso alla data di partenza l’aeroporto era ancora occupato e i giornalisti di tutto il mondo scrivevano con aria preoccupata del casino che regnava a Bangkok.

In quel periodo c’erano svariate centinaia di migliaia di persone rimaste letteralmente a terra e se per noi scugnizzi la cosa poteva anche assumere un certo fascino inaspettato, molti businessman e padri di famiglia ne avevano abbastanza di cocaina e tette rifatte asiatiche e non vedevano l’ora di ripartire.

Più hotel per tutti

Nel tentativo di mettere una pezza alla figuraccia mondiale che l’occupazione degli aeroporti di Bangkok aveva causato, il governo thailandese decise di offrire vitto e alloggio in alcuni alberghi selezionati, a tutti coloro, compresi noi, che erano rimasti a terra. Non tenevo un diario e non ricordo il nome dell’hotel in cui finimmo, ma quello che era certo è che il governo thai si era proprio preso a cuore la situazione.

Alloggiammo in uno di quegli albergoni superlusso dove c’è anche un addetto all’ascensore (il che è imbarazzante, credetemi). La ciliegina sulla torta era però vedere che tipo di clientela si era affrettata a chiedere alloggio in posto come quello.

Il turista medio di Bangkok gira in infradito, tende perlomeno all’alticcio e, come vestiti, quando va bene, ha una canottiera sporca. Vedere tutta la clientela tipo Khao San Road trovare rifugio in un albergo 5 stelle che aveva una sala banchetti grande quanto un palazzetto dello sport e serviva cibo il cui prezzo era simile a quello di due notti in un albergo di media categoria, era uno spasso. Spaesati e famelici.

E alla fine uscimmo, ahimè, dalla Thailandia

Qualche problema ci fu alla partenza. Era il 4 dicembre, l’aeroporto era occupato da una decina di giorni e lo sarebbe stato per altri 2. Qatar Airways decise di farci partire da un aeroporto militare a 200km da Bangkok.

Il check-in avvenne in un padiglione della fiera di Bangkok. Non c’erano computer, sedie e nemmeno bilance elettroniche. Arrivammo alle 7 e finimmo il check-in, con tutti i biglietti scritti a mano e confidando che i bagagli sarebbero in qualche modo arrivati a Doha, verso le 13.30. Due ore e trenta di viaggio in autobus e più o meno alle 16 eravamo sull’aereo che ci avrebbe riportato in Qatar prima e in Italia dopo.

A ripensarci adesso quella sorta di “occupazione di Bangkok” fu molto divertente. Quella volta la politica entrò nel nostro viaggio e ci trattò bene. Si potrebbe dire che il nostro viaggio diventò, per forza, turismo consapevole.

Ora però mi sembra il caso di passare a un altro esempio di viaggi e politica, il viaggio in Siria.

A volte ritornano

Se nel 2008 ci andò bene (odissea del check-in a parte), i miei “ritorni” a Bangkok nel 2010 e nel 2014 sono stati più complessi.

Nel 2010 il clima di tensione era nell’aria e per fortuna riuscii ad evitare il bagno di sangue, 91 morti, che devastò il centro città tra marzo e maggio di quell’anno.

Nel 2014 invece, tutta la zona intorno a Sukhumvit  rimase bloccata per un lungo periodo (forse un paio di settimane, ma vado a memoria) da sit-in e manifestazioni contro l’allora governo di Yingluck Shinawatra, la telegenica sorella dell’ex premier Thaksin di cui abbiamo parlato precedentemente.

E gli altri? Andiamo in Siria, quando si poteva provare a parlare di turismo consapevole

Tuttora sembra che il clima politico thailandese non sia in grado di volgere al bello ma, come sempre accade in questi casi, c’è chi è messo decisamente peggio.

Mi riferisco alla Siria, che quasi giornalmente, in ragione dei profughi o dell’ennesima strage di civili, occupa una parte delle notizie online o televisive (ma qualcuno guarda ancora il telegiornale?).

Se per caso avete memoria di quello che è successo in Libano, con una guerra civile che è durata 15 anni e in cui la Siria stessa ha giocato un ruolo non di secondo piano, allora capite come potrebbero andare a finire le cose oggi.

Uno dei suk di Damasco. Si dice che i fori nella copertura siano stati causati dagli attacchi degli aerei francesi negli anni '20. Pur essendo stato in Siria ammetto che quel viaggio non fu davvero "turismo consapevole".  Qualcuno dice che il detonatore di tutta la crisi fu una questione legata alla siccità. Può essere, ma il malessere doveva comunque avere radici profonde.
Uno dei suk di Damasco. Si dice che i fori nella copertura siano stati causati dagli attacchi degli aerei francesi negli anni ’20. Pur essendo stato in Siria ammetto che quel viaggio non fu davvero “turismo consapevole”. Qualcuno dice che il detonatore di tutta la crisi fu una questione legata alla siccità. Può essere, ma il malessere doveva comunque avere radici profonde.

Il punto però non è questo. Nel 2010, quando io e Jacopo girovagavamo per Beirut e Baalbek, la Siria era la sorella buona e il Libano, Beirut in particolare, quella casinara. Quando arrivammo a Damasco fummo sorpresi del numero di persone e dell’affollamento generale ma niente, davvero niente, faceva presumere che di lì a 10 mesi si sarebbe scatenato l’inferno. Potremmo dire, forse, che in questo si trattò della forma più semplice di turismo, quello in – consapevole.

Dica 33

Mi rendo conto che è difficile “prendere il polso” ad un paese se ti fermi solo per 4 giorni nella capitale, eppure allora avemmo anche l’occasione di parlare con un ragazzo e una ragazza di Damasco che avevano accettato di farci da guida per la città.

Li avevamo contattati tramite Couchsurfing e non ci era sembrato il caso di parlare di politica ma l’accento di lui, Adnan, sembrava bostoniano e il modo di fare della ragazza, Aya, che non portava il velo, dava come l’impressione che la buona gioventù di Damasco non se la passasse poi così male.

Un incrocio di Damasco e sullo sfondo uno dei quartieri poveri cresciuti sul fianco della montagna che domina la città vecchia.
Un incrocio di Damasco e sullo sfondo uno dei quartieri poveri cresciuti sul fianco della montagna che domina la città vecchia.

L’unico elemento che mi era sembrato fuori posto erano le restrizioni nell’accesso a internet.

No FB, no YouTube, no Tik Tok…

La sera, nel lussuoso (si, per una volta ci eravamo concessi qualcosa da ricconi) hotel dove alloggiavamo, scoprii presto che alcuni siti, tra cui youtube e facebook erano, almeno formalmente, bloccati. Ovvio che qualsiasi mediocre nerd, e tutti gli internet point, avessero trovato una decina di modi per aggirare il blocco (credo che la parola proxy fosse citata più volta ma non chiedetemi di più).

La realtà era ovviamente complessa e il blocco di alcuni siti era solo la punta dell’iceberg di un sistema autoritario/repressivo la cui violenza è venuta alla luce solo dopo qualche mese (con la complicità, forse, di una crisi idrica ed alimentare – vedere il doc. “Years of living dangerously” per approfondire).

Confesso però che un certo senso di colpa, vago e interiorizzato, mi rimane. Perché che razza di viaggiatore sono se non ho nemmeno intuito che sotto il gelato al pistacchio, i suk movimentati, i locali cristiani dove si potevano bere alcolici e la bandiera d’Israele stesa a terra in mezzo ad una stradina pedonale, sotto tutto questo e molto altro, c’era un vulcano pronto ad eruttare una guerra civile lunga ed orribile?


Insomma, voi che ne pensate di questa cosa del turismo consapevole, dell’attenzione politica? tutta fuffa? fatemelo sapere nei commenti!

*Per gli aggiornamenti sulle ultime elezioni thailandesi c’è questo articolo e poi anche questo.

Se volete, poi, qui parlo di shock culturale e di come viaggiare spendendo poco.

Infine, la mia cara, in tutti i sensi, Oslo.

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